Nella sofferenza, se non si è soli, si possono fare cose meravigliose

Conoscevo una poesia breve, composta da tre frasi soltanto, ma cariche di significato; da giovane ho organizzato un campo formativo diocesano su questa poesia: avevamo 9 giorni pieni a disposizione e ne abbiamo utilizzati 3 per ognuna delle frasi. Tre giorni per leggere ogni frase, analizzarla e capirne al meglio i significati.

Molti anni dopo la mia vita è cambiata, o meglio, ho cominciato un’esperienza totalmente diversa: la Vita Comunitaria; da 6 anni vivo e lavoro in una comunità. Ed è proprio in questa esperienza nuova che ho ritrovato quella poesia inserita nella mia vita.

Non posso dire di aver dedicato 2 anni per ogni frase, ma le ho ritrovate, riscoperte e riportate nel mio quotidiano.

 

La prima delle tre frasi recitava:

“Dormivo e sognavo che la vita era gioia…”

Tutti sogniamo la gioia, la felicità; tutti abbiamo il diritto di farlo. Chi di noi non auspica di vivere felice?

Si sogna la salute, la tranquillità, si sognano soldi e una casa bellissima; l’impiego ideale, il compagno o la compagna perfetti e tante altre cose realizzabili ma a volte anche utopiche.

Ma cos’è la gioia? Cosa vuol dire felicità? E se la mia felicità diventa ingombrante per gli altri, ho ancora il diritto di sognarla? Se la mia gioia è il dispiacere di qualcun altro, è davvero gioia?

Non c’è molta chiarezza su questi termini, molti di noi non sanno realmente cosa sia la felicità perché probabilmente non sono stati educati a discernerla dalla tristezza, dalla sofferenza.

In 46 anni di vita ho capito chiaramente che c’è una differenza enorme tra ciò che voglio e ciò di cui ho bisogno.

La società stessa ci propina la felicità con valori eleganti e sfarzosi, luccicanti, ma senza fondamenta forti. E chi è da solo facilmente cade nel tranello: sogna ciò che desidera, non sogna quello che fa bene.

Nella vita comunitaria veniamo sbattuti in una realtà ed in un luogo ‘estraneo’, fatto di persone che non ci siamo scelti, di luoghi che non abbiamo sognato. Cerchiamo e agogniamo sempre un altrove, magari utopico o che non esiste, ma altrove, lontano dalla comunità.

Ma col tempo ci si accorge che è proprio questa nuova vita, che ci da un nuovo punto di vista. Sono le persone accanto a me che mi fanno capire di cosa ho bisogno.

Amarsi, prendersi cura di sé: che ne parliamo in termini sociologici o religiosi, per farlo bene abbiamo bisogno degli altri, sono necessarie le relazioni. Una componente essenziale dell’amarmi sta nel permettere agli altri di amarmi, di fare il mio bene, di darmi ciò di cui ho bisogno.

Nella vita comunitaria ho imparato a fidarmi di coloro che, volendomi bene, agiscono per il mio bene. Anche se, senza di loro, avrei fatto scelte diverse, anche se avrei voluto altro per me, ho lasciato che mi volessero bene e che si prendessero cura di me.

A questo punto, si può ipotizzare che la mia felicità la determinano gli altri. Quindi, quell’autosufficienza totale che la società ci racconta essere la vera felicità, la vera realizzazione di sé, è solo un modello fragile e che non sta in piedi perché privo di valori forti.

Chi sono io se non ciò che, chi mi sta intorno, pensa di me? Vivendo da solo in quell’autosufficienza che sembra farmi sentire invincibile, come faccio a scoprire chi sono? Come faccio a capire dove sta la mia felicità?

La vera fragilità che rende infelici sta proprio nella solitudine, che si sia rifiutati dal mondo o che si scelga di stare soli perché ci si sente invulnerabili, nella solitudine non si può fare esperienza di relazioni forti; quelle relazioni che cambiano la vita, che aiutano a superare gli ostacoli e a ‘limare’ i propri difetti.

Nella solitudine non si fa esperienza della parola ‘noi’.

 

Poi la seconda frase recitava:

“…mi svegliai e vidi che la vita era servizio…”

Che amarezza! Dopo aver sognato la felicità, risvegliarsi e tuffarsi nella realtà: lavoro, sofferenza, fatica, problemi, contrasti con gli altri, litigate…

Sognare una casa sul mare in Nuova Zelanda per poi risvegliarsi e dover andare a timbrare un cartellino in ufficio… desiderare la salute, la forza, per poi fare i conti con la malattia, la sofferenza nostra o di chi ci sta intorno…

Ma la realtà è questa, dobbiamo lavorare per vivere; dobbiamo faticare per andare avanti; dobbiamo stare attenti per non ammalarci; dobbiamo servire.

In comunità ho ascoltato tante storie di sofferenza, di tristezza o di fallimento. Ascoltarle mi ha fatto vedere con altri occhi la mia storia. Le mie sofferenze sono le stesse di altri oppure i miei dolori sono totalmente diversi da quelli altrui, è vero, ma come me tutti hanno sofferto, tutti hanno sbagliato, tutti hanno avuto bisogno di aiuto, tutti hanno trovato un posto, una comunità che si prende cura di loro, anche io come loro. Anche io insieme a loro.

La sofferenza non si augura a nessuno, ma una volta provata ci si accorge che ci rafforza, ci tempra e ci fa sviluppare una incredibile sensibilità alla sofferenza altrui.

Negli anni ’70 un giocatore Americano di pallavolo che giocava in Italia, giovane, forte, all’apice della sua carriera, pieno di soldi e fama, per un incidente in palestra rimane totalmente paralizzato, in sedia a rotelle.

Invece di scoraggiarsi o farsi prendere dalla depressione lotta per continuare ad essere un esempio per il mondo, non più un esempio sportivo, ma etico. Durante la giornata del Giubileo degli ammalati, nel  2000, in piazza San Pietro legge una preghiera, il suo più grande testamento al mondo:

Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi,

ed egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà.

Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese

ed egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.

Gli domandai la ricchezza per possedere tutto:

egli mi ha fatto povero per non essere egoista.

Gli domandai il potere perchè gli uomini avessero bisogno di me:

egli mi ha dato l’umiliazione perchè io avessi bisogno di loro.

Domandai a Dio tutto per godere la vita:

mi ha lasciato la vita perchè potessi apprezzare tutto.

Signore, non ho ricevuto proprio quello che chiedevo

ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.

Le preghiere che non feci furono esaudite.

Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini nessuno possiede quello che ho io !

 

Nella sofferenza, se non si è soli, si possono fare cose meravigliose. Non siamo chiamati tutti a fare grandi cose o a scrivere preghiere del genere, ma tutti noi che soffriamo, abbiamo sofferto, nel condividere con umiltà la nostra vita con gli altri, possiamo diventare una forza notevole.

Una comunità composta da persone che da sole sono deboli e fragili diventa forte nell’insieme, nell’unità.

 

 

Ed infine la terza e conclusiva frase della poesia:

 

“…provai a servire e mi accorsi che servire era gioia!”

 

Avere bisogno di aiuto non è umiliante; chiedere aiuto non è umiliante, e neppure essere aiutati lo è.

La vera umiliazione è nell’autodistruggersi per la vergogna di chiedere aiuto o per la superbia di sentirsi autosufficienti.

 

Quindi il sogno e la realtà possono combaciare. Quindi sognare la felicità può non voler dire per forza desiderare qualcosa di lontano.

La gioia può esistere proprio nel servire, nel prendersi cura di chi ci sta intorno, o di chi, a sua volta, si prende cura di noi.

Allora la comunità sembra diventare il metodo migliore per essere felici, sembra diventare la ‘normalità’ e non più, come ci fa credere il mondo, la ‘stranezza’.

Nella comunità si va perchè si è fragili, deboli, rifiutati, non autosufficienti per i canoni del mondo ‘fuori’, ma si diventa forti ed utili proprio nel momento in cui ci si mette a disposizione degli altri, quando si comincia a prenderci cura di chi ci sta intorno e si permette loro di ricambiare.

 

Quindi la mia gioia non è l’evento fuori dall’ordinario: la vacanza, il viaggio, la festa; la felicità diventa il mio quotidiano.

Quindi il mio sogno colmo di gioia non sarà più la casa al mare nel mese di luglio, ma sarà ogni lunedì mattina di ogni mia settimana, in cui ricomincerò, con gioia a lavorare, soffrire, faticare e servire.

Questo cambiamento di punto di vista non è assolutamente facile, io riesco a vederlo, a scriverlo e a descriverlo, ma viverlo è più difficile.

Ma una comunità forte, stretta intorno ad ogni singolo, è l’aiuto perfetto per arrivare a questo cambiamento. Per arrivare a vedere il servire gli altri, con il lavoro e la fatica del caso, come la vera gioia di questa vita.

Gli ebrei hanno un detto: servire non è servilismo o schiavitù, ma l’arte suprema! Dio serve tutti ma non è servo di nessuno!

Cosa ci può rendere più felici se non l’avvicinarsi a Dio?

 

Sei anni di comunità sono pochi per dire di esserne esperto, ma sono abbastanza per vedere i frutti che crea.

Io non credo che le comunità siano perfette, ma anche questa parola spesso ha interpretazioni discordanti.

Si fa fatica in comunità a convivere con altre persone, a stare tutto il giorno con loro, a condividere tutto. Si fa fatica a stare ai ritmi dettati da altri, e si fatica a sopportare i loro difetti i loro atteggiamenti fastidiosi. Si fa fatica a stare alle regole ed anche ad accettare i rimproveri quando si sbaglia.

Si fa fatica.

Ma cos’è la perfezione? Io non credo di avere la versione corretta di questo concetto, ma sono cresciuto con una immagine che mi ha sempre affascinato. Antoine de Saint-Exupery, scrittore Francese dei primi del’900 diceva che la perfezione non si raggiunge quando non c’è altro da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere.

Mi è sempre piaciuta l’immagine di una perfezione che non è un punto d’arrivo, ma in continuo movimento, in continuo miglioramento.

Per raggiungerla si devono aggiungere cose positive, esperienze formative ma anche togliere il superfluo, come un giardiniere che pota o un contadino che toglie le erbe infestanti dall’orto.

Allora una comunità può cercare di trovare la sua perfezione togliendo ciò che è inutile, o peggio, dannoso senza mai perdere di vista il miglioramento, l’aggiunta di bellezza, l’aumento di felicità.

 

La mia comunità sta cercando di rendermi perfetto, perché continuamente e quotidianamente cerca di togliere da me tutto ciò che non mi serve, che mi rende, appunto, imperfetto.

E questo è proprio il servizio enorme della vita comunitaria, un’esperienza che non si può giudicare o criticare se non se ne è fatto parte.

E vedo, con orgoglio, il continuo ‘movimento’ per migliorare ogni volta che nella mia comunità nasce una nuova idea, una nuova Casa o Struttura; ogni volta che arriva un nuovo ospite o un nuovo collaboratore.

Vedo tutto ciò con orgoglio perché anche io ne faccio parte.

Ecco, nella mia breve esperienza di vita comunitaria ho raggiunto una consapevolezza, che non è assolutamente un punto d’arrivo, ma è uno step fondamentale: sono orgoglioso della Comunità che mi ha accolto, al punto di considerarla lamia Casa, la mia Famiglia.

 

Per finire, auguro a tutti di fare sogni d’oro, sogni di gioia e felicità, per poi svegliarvi e toccare concretamente quella gioia nel quotidiano della vostra, totale o parziale, esperienza di Vita Comunitaria.

 

Andrea

 

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