“UN CORO DI VOCI”

FEBBRAIO 2021

La formazione inizia ascoltando un coro di voci, migliaia di voci di persone diverse mai incontrate prima, in grado di arrivare al cuore emotivo di chi ascolta creando un’armonia musicale, un grido comune travolgente. Sguardi, sorrisi compongono un insieme impetuoso, un’onda comunicativa metafora di come persone di estrazione diversa, culture diverse, religioni diverse, età, generi diversi possono insieme, guidate da un animatore, costruire un insieme armonico, un flusso emotivo, partecipare ad un’esperienza di connessione. Per un attimo le divergenze, i conflitti, scompaiono ammutolite da un progetto più grande.

Ospiti, collaboratori, operatori, insieme. I due piccolini più vivaci scalpitano e trovano rifugio accanto al direttore. Un musulmano egiziano, un cristiano rom e un teologo educatore. Un’umanità ricca, variegata. C’è chi è appena arrivato con la barba lunga osserva chi come lui è arrivato in comunità quando dormiva sulle panchine mentre adesso fa da riferimento per altri ospiti, si prende delle responsabilità e lavora con dedizione. C’è chi quando è arrivato dieci anni fa aveva prospettati solo due tre mesi di vita mentre adesso coordina i lavori degli orti e si spende generosamente per la comunità. Ci sono i ragazzi del servizio volontario europeo, una sferzata di giovane energia e belle speranze, uno sguardo curioso, un gran desiderio di imparare e crescere. Jhoannes dalla Germania, sorpreso dalla complessità dell’organizzazione, ha chiesto di allungare il suo periodo di volontariato desideroso di spendersi ulteriormente. Con passione si è dedicato alla ristrutturazione delle biciclette usate, ha partecipato ai lavori di manutenzione e trasformazione delle case, coinvolgendosi in tutte le proposte delle attività delle comunità. Ruby ha incontrato le mamme e i bambini dell’accoglienza comunitaria imparando a comunicare senza bisogno di conoscere la lingua, giocando insieme sempre con il suo contagioso sorriso. Insieme a loro anche il giovane Felipe e Suzana dal Portogallo.

Ci sono le donne, le mamme dalla Nigeria, dall’Etiopia, dalle Filippine, dall’Ucraina, dodici nazionalità diverse, culture diverse, credi diversi.

Appartenenza significa sentirsi parte, armonizzarsi con l’insieme per cantare insieme, per costruire una visione che sia trasformativa, che sia travolgente in modo da essere più forte della distruzione, del caos, del dolore, dell’egoismo, dalla malattia, perché queste non abbiano il sopravvento e dominino la vita di chi cerca di salvarsi. Appartenenza è sentirsi forti di avere una storia verso cui rivolgersi, racconti di vita già vissuta, episodi critici superati, sbagli, aggiustamenti, strategie efficaci, strade già percorse. Storie di crescita, di speranza, di cambiamento. Storie di crisi, di abbandoni, di fatica, di perdita, di fallimento.

Appartenere non significa possedere ma essere parte. Essere parte significa lasciarsi trasformare ogni giorno, nel confronto, nei dubbi, nella relazione, ascoltare le proprie debolezze, la propria sofferenza. Come posso ascoltare la debolezza dell’altro se per primo nego la mia? Come posso accostarmi all’anima dell’altro chiedergli di cambiare se per primo non provo io stesso a cambiare?

Essere parte significa faticare e costruire ogni giorno, mattone dopo mattone, contribuire al cambiamento della cooperativa, alla sua crescita, sentirsi responsabili, prendersi cura, rispondere degli errori in prima persona. Si può entrare in una casa trovandola già organizzata nei suoi ritmi, nelle regole, nelle attività e osservarne l’andamento, la condizione delle persone che la abitano. Chi ha contribuito a costruire e raggiungere quell’equilibrio che si osserva adesso conosce la fatica che è stata necessaria, sa quanto caro costi dimenticare un aspetto anche se apparentemente piccolo, anche se apparentemente banale. Gli equilibri sono precari e sono fragili, contribuire a costituirli fa appartenere, fa sentire l’esigenza di prendersene cura, con rispetto.

Un’immagine che fa parte della storia della cooperativa è il Cristo di Battlò, chiamato affettuosamente “Cristo dei pazzi” dagli ospiti della comunità di Brest incontrati da Burdese in Bretagna nella comunità dell’Arca. Siamo abituati a vedere sulla croce un cristo sofferente, sanguinante doloroso, appeso alla sua sofferenza. Il Cristo dei pazzi se ne sta invece vittorioso sul dolore. Un simbolo di speranza che dichiara come dalla perdita, dalla sconfitta, dal dolore può nascere una determinazione, una forza, una rinascita.

C’è il panettiere, che andrà a sostenere il progetto di panificio sociale, c’è chi si occupa delle aree verdi e chi dei servizi di pulizia. Ci sono i professionisti che riflettono sulla giusta distanza da tenere per tutelare i propri spazi individuali così che non invadano la sfera personale le dinamiche comunitarie e si possa operare con lucidità senza perdere l’appartenenza alla propria famiglia. I volontari propongono una maggiore azione di mediazione rispetto all’organizzazione e i significati, oltre ad una maggiore programmazione e ritualità soprattutto con mamme e bambini. Le proposte degli ospiti sono maggiori momenti di confronto e riflessione in cui si possano discutere gli aspetti critici e in cui si possa scambiare aiuto tra gli ospiti, istituendo un giorno a settimana dedicato. Proposte di attività creative e momento di riflessione spirituale alla sera.

 

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